Le Corbusier e il tetto come luogo collettivo.

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 18 Aprile 2020

Il presente può essere insopportabile e la necessità/mancanza di spazio fisico diviene, a lungo andare, necessità di spazio mentale, come sta accadendo per il coronavirus, in cui si rende manifesta l’importanza della qualità dell’abitare. L’architettura è figlia di Ananke-Necessità, e nelle sue istanze archetipe è rifugio: rifugio dagli attacchi della natura «che veramente è rea, che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna», come il nostro Giacomo nazionale poetava. Con l’architettura l’uomo ha costruito i suoi ripari per difendersi dalla crudeltà e dalla indifferenza della natura, ma dietro di essa ha trovato anche il divino che salva: la bellezza. La condizione iniziale di rifugio/riparo, «l’irriducibile nucleo intenzionale» (Rykwert, 1972), si è via via arricchita di istanze estetiche, dominate dal patto sociale governato da Dike-Giustizia, interpolando bellezza e necessità. La Polis, la Civitas, la città di Dio del Medioevo e via via sino alla città Moderna hanno condiviso il destino dominato da una Tecnica che presupponeva, come fondo del proprio fare, l’Uomo nella sua totalità. La Tecnica, nella sua svolta (riduzione...) produttivistica, ha - con progressiva e crescente debolezza - abbandonato l’idea della ‘natura che concede’ (dalla quale accogliere i doni), per assumere un fare impositivo: la Natura è risorsa produttiva con la quale l’uomo esercita il proprio dominio sulla terra e combatte il male che essa infligge. Il mondo, con lo sviluppo della Tecnica moderna, è divenuto ‘seconda natura’. In questo quadro è significativo riflettere sulla proposta dell’architetto Le Corbusier (1887 – 1965) per le cosiddette ‘Unité d’Habitation’ della città del Moderno, una machine â habiter per una idea di città verticale in cui l’edificio – per far spazio alla natura - riunisse in un unico organismo architettonico residenziale tutte le funzioni collettive necessarie agli abitanti: negozi, asilo, supermercato, lavanderia, farmacia, ufficio postale, ecc. Ciò che oggi emerge prepotente di quella proposta, alla luce della difficoltà della pandemia in corso, è l’idea del ‘tetto collettivo’. Il grande architetto, nella logica progressista della nuova città moderna (La Cité Radieuse), immagina la possibilità di sostituire il tetto-copertura, ovvero l’elemento simbolico e fondante della necessità di rifugio-riparo, con uno spazio collettivo, scoperto e abitabile: il tetto diviene ‘luogo’, il luogo delle attività all’aria aperta della comunità. Sul tettoterrazza di Le Corbusier si può correre (300 mt di percorso ginnico), giocare, utilizzare la piscina, leggere, passeggiare, riunirsi in un piccolo auditorium, prendere il sole, ovvero dare luogo all’abitare collettivo protetto. L’Unité d’habitation, ebbe molti detrattori, al punto che fu definita ‘maison du fada’ (casa del pazzo). Purtroppo il dominio della tecnica sugli scopi ha definitivamente spostato l’attenzione dai princìpi ai mezzi, facendo sì che le derivate di quella idea venissero coniugate – da allora - in elitari tetti giardino in stile luxury o in ‘boschi’ che si arrampicano sugli edifici per conquistare i vasi dei balconi. Non si è voluto vedere che quella natura di pietra è molto di più del banalizzante saccheggio a cui è stata ridotta quella ricerca, da parte dei soggetti che hanno determinato la forma delle nostre città (mercato immobiliare). Non è forse il momento per ripensare la tecnica alla luce del divino che salva, dei veri princìpi del fare architettura, in vista di un reale – e non apparente – salto in avanti dell’umanità?


Didascalie immagini:
- Le Corbusier, il tetto collettivo dell’Unité d’habitation, Marsiglia, 1952
- Immagini dell'Unité d’habitation, Marsiglia, 1952